Non c’è niente di eticamente scorretto o particolarmente pericoloso nell’utilizzo di farmaci per migliorare le proprie prestazioni intellettuali. Questo, in sintesi, il commento, sulle pagine di Nature, di un gruppo di autorevoli neuroscienziati americani e inglesi alle preoccupazioni legate al crescente utilizzo da parte di persone sane di medicinali nati per curare specifiche patologie psichiatriche e neurologiche.
Si parla di farmaci usati, per esempio, per il disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività e in grado di migliorare le capacità di concentrazione: un grande aiuto per gli studenti che devono affrontare esami. E anche di farmaci che riducono la sonnolenza nei pazienti narcolettici, molto utilizzati dai chirurghi che devono rimanere lucidi ed efficienti nonostante turni di lavoro lunghi e stressanti.
In particolare, è stato dimostrato che la stimolazione subtalamica, già utilizzata con successo in disturbi del movimento come il Parkinson, è in grado di ridurre i comportamenti ripetitivi, l’ansietà e i sintomi ossessivo-compulsivi.
Di certo possono sorgere problemi legati all’uso del “doping della mente“: effetti collaterali a lungo termine ancora poco chiari, ingiustizie sociali dovute all’elevato costo di questi farmaci, non sostenibiledalle classi meno abbienti eccetera. Concludono gli autori, che però non hanno dubbi:
«Come tutte le nuove tecnologie anche i farmaci che migliorano le prestazioni mentali possono essere usati bene o male. Bisogna compiere tutti gli sforzi necessari per massimizzare i benefici e minimizzare i danni legati al loro utilizzo»