Non ho il minimo senso del ritmo. Quante volte abbiamo sentito dire (o detto) questa frase? Beh, da oggi è corretto controbattere che ciò non è umanamente possibile. A dirlo è uno studio effettuato da ricercatori ungheresi e coordinato dall’Università di Plymouth (Inghilterra), recentemente pubblicato dal Proceedings of the National Academy of Sciences, che ha determinato come il ritmo non sia qualcosa di acquisibile, bensì una dote congenita negli esseri umani.
Era finora noto che la comprensione e apprendimento della musica fossero possibili solo in seguito ai primi quattro mesi di vita, grazie ad esperimenti ed analisi di tipo comportamentale: i bambini, infatti, interagivano con i suoni prodotti esternamente ed erano influenzati dalle canzoni cantate dagli adulti, come ad esempio le ninne nanne. In passato, sono state analizzate a fondo delle informazioni riguardanti le abilità spettrali (riconoscimento dei colori) nei neonati, ma fino ad oggi esistevano ancora molte lacune sul come i bambini appena nati potessero elaborare le informazioni di tipo sonoro, soprattutto quelle relative al ritmo.
La capacità di comprendere il concetto di tempo (definibile come un impulso regolare dei segnali acustici) aiuta gli individui a sincronizzare i propri movimenti rispetto agli altri, ad interagire in pratica come ad esempio avviene nella danza o nella produzione di musica insieme ad altri soggetti (es. la coordinazione di un gruppo musicale). Poiché però queste osservazioni di tipo comportamentale sarebbero state difficili, se non impossibili, da analizzare nei neonati, ancora troppo piccoli per interagire in maniera vera e propria con altri soggetti, il metodo utilizzato dai ricercatori ungheresi si è basato sull’analisi dell’attività cerebrale dei soggetti osservati, tramite risonanza magnetica.
Sono stati dunque esaminati, attraverso elettroencefalogramma, 14 neonati, in buone condizioni di salute e di 2/3 giorni di vita, spesso addormentati (in quanto, ricordiamolo, l’attività cerebrale continua anche durante il sonno), sotto lo sguardo attento, se non in braccio alle proprie madri, sottoposti all’ascolto di una musica fortemente ritmata. È stato dunque osservato che l’attività cerebrale dei bambini reagiva ai cambiamenti di fattori primari del suono (ad es. la ripetizione di un tono alto) e alle variazioni di sequenza e ritmo.
I bebè, in poche parole, notavano il cambiamento di tempo poiché il loro cervello aveva compreso ed elaborato un determinato ritmo e lo ripeteva automaticamente (se lo aspettava, in un certo senso). Quando il ritmo veniva interrotto o modificato, ad esempio inserendo un passaggio musicale in più o variando la sequenza delle note, l’attività cerebrale dei neonati lo notava, distinguendo anche tra suoni armonici e rumori (più complessi da decifrare per il loro udito).
È stato notato inoltre come i neonati siano anche sensibili ai parametri di tipo temporale (come la durata del suono o le strutture temporali di una sequenza sonora, vedi la ripetizione di un modello ritmico) poiché ripetevano sempre a livello cerebrale, il tempo che avevano acquisito con l’ascolto continuato, quella che sarebbe definibile come una forma di apprendimento molto precoce. Ciò è dimostrabile anche prendendo in considerazione gli scimpanzé, nostri n”parenti” più prossimi. Infatti, anche se i feti di scimpanzé sono in grado di percepire il battito cardiaco della madre sin dall’interno dell’utero, proprio come avviene per i bambini, non sono però capaci di possedere un senso del ritmo di tipo innato.