Che il cosiddetto “capitale umano” fosse in costante fuga dall’Italia, non è né una scoperta né una novità. Da sempre gli italiani sono un popolo di emigranti, ma in un periodo in cui il nostro Paese si auto-proclama tra i più avanzati al mondo, non può permettersi il lusso di perdere i suoi cervelli migliori.
E sono proprio questi che mancano. Non perché il sistema dell’istruzione italico non ne produca. I migliori ricercatori, medici, ingegneri e scienziati al mondo, come abbiamo più volte visto anche su queste pagine, sono italiani, ma nella stragrande maggioranza dei casi al loro nome è associata qualche università o istituto di ricerca straniero.
Stati Uniti, Gran Bretagna, Brasile, Canada e Svezia sono le mete preferite, non perché siano Paesi più belli degli altri, ma perché è lì che la ricerca viene finanziata, e dove una “beautiful mind” può esprimersi. Ora finalmente arriva l’ufficialità di questo problema per bocca del Ministro della Salute Ferruccio Fazio, e con essa anche l’avvio di un programma per risolverlo.
Quello che il Ministero vuol fare è evitare che i ricercatori migliori oltrepassino il confine, e magari fare in modo che quelli che negli anni scorsi se ne sono andati, tornino a casa. Ma come fare per competere con nazioni che finanziano le ricerche con fondi di 3-4 volte superiori a quelli delle nostre università? Durante il Congresso nazionale sulla ricerca sanitaria sono stati avviati progetti in tal proposito.
Il Ministero ha infatti messo a disposizione 10 milioni di euro per una sorta di “Facebook della scienza” (Italian Network Health Research), in cui i ricercatori italiani residenti all’estero possono mettersi in contatto con gli istituti italiani ed avviare collaborazioni che facciano crescere anche il nostro Paese. Non solo. Potranno infatti essere effettuate pubblicazioni, finanziamenti delle ricerche e programmi per il rimpatrio, perché dopotutto se è vero che i ricercatori italiani sono i migliori al mondo (come affermato da Camillo Ricordi direttore del Centro trapianti cellulari dell’Istituto di ricerca sul diabete dell’università di Miami, in Florida), non possiamo permetterci di perdere un patrimonio simile se vogliamo veramente essere un Paese all’avanguardia.
I soldi non basteranno, prima bisognerà risolvere altri tipi di problemi come il nepotismo, lo scontro etico con la Chiesa, il baronato universitario e tanti altri ostacoli che la società italiana frappone allo sviluppo, ma almeno questo potrebbe essere un inizio.