Nonostante sia sempre più presente nel mondo moderno, tanto che è difficile trovare una famiglia in cui non c’è nemmeno un nonno che ne soffre, il morbo di Alzheimer continua ad essere una sorta di mistero per la scienza. Non si sa cosa lo causi, e tutte le ipotesi fatte finora non sono mai sicure al 100%. Una nuova scoperta, effettuata sui topi, potrebbe tuttavia rivoluzionare il modo di pensare alla condizione. Si credeva infatti si trattasse solo di un problema neurologico, con i neuroni che, forse a causa dell’età, cominciano a morire, e si pensava che al massimo potesse essere ereditaria. Ma i ricercatori dell’Università di Houston hanno scoperto che il morbo di Alzheimer potrebbe essere contagioso.
In particolare, anche se in alcuni casi non molto comuni, la malattia potrebbe essere il risultato di un’infezione, e per questo può anche essere trasmissibile. All’interno dello studio sono stati utilizzati dei topi a cui è stato iniettato il tessuto cerebrale umano di pazienti affetti dall’Alzheimer, in modo da far ammalare anche loro. Una pratica comune e collaudata, tanto che in breve tempo anche le cavie si sono ammalate di Alzheimer. Messi a contatto con altri topi a cui era stato iniettato tessuto umano non malato, è stato visto che alcuni si sono ammalati.
Il meccanismo alla base del morbo di Alzheimer è molto simile alle malattie da prioni. Si tratta di una proteina normale che diventa deforme, ed è in grado di diffondersi, trasformando le proteine buone in cattive. Le proteine cattive si accumulano nel cervello, formando depositi di placca che si ritiene uccidano le cellule dei neuroni. I nostri risultati aprono la possibilità che alcuni degli sporadici casi di Alzheimer possono derivare da un processo infettivo, simile a quello del morbo della mucca pazza che deriva dall’infezione da proteine malate chiamati prioni
ha spiegato il ricercatore Claudio Soto, docente di neurologia dell’Università del Texas Medical School a Houston. Purtroppo, specificano gli studiosi, si tratta sempre di malattie studiate sui topi e non abbiamo ancora la certezza che funzionino allo stesso modo anche sugli uomini, anche se la somiglianza tra queste due specie è impressionante. Per questo c’è bisogno di ulteriori studi per comprenderne il meccanismo. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Molecular Psychiatry.
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[Fonte: Livescience]