Una bronco artificiale creato con una stampante 3D è stata in grado di salvare la vita ad un bambino di 20 mesi affetto da una grave forma di tracheobroncomalacia (TBM) che non gli permetteva di respirare.
Questa grave malattia origina la mancata formazione del supporto cartilaginoso di trachea e bronchi causandone il collasso con la conseguente impossibilità della persona di respirare perché non in grado di mantenere “aperte” le vie respiratorie. Un’ articolo pubblicato sulla rivista di settore New England Journal of Medicine ha spiegato come la specifica parte bronchiale necessaria al piccolo sia stata creata e di come sia stata impiantata nel bambino che ora, grazie a questo organo artificiale bio-assorbibile potrà vivere in futuro una vita normale e senza problemi.
Il modello da impiantare, stampato con la stampante 3D è stato ottenuto grazie alle immagini ad alta risoluzione della Tac al quale il bambino, Kaiba, è stato sottoposto. La speranza di vita per il piccolo è arrivato sotto forma dell’interessamento dell’Università del Michigan negli Stati Uniti che grazie al dispositivo 3D ha creato l’organo utilizzando il policaprolattone (Pcl), un polimero semi-cristallino sintetico biodegradabile. Entro i prossimi tre anni il suo corpo lo assorbirà completamente: nel frattempo consentirà al piccolo di poter contare su una crescita corretta del proprio apparato respiratorio.
La tracheobroncomalacia è una malattia che colpisce circa un neonato su 2200. Talvolta viene confusa con forme di asma aggressiva, ritardando l’attuazione di soluzioni valide. Per il caso di Kaiba, la cui gravità è tipica del 10% dei casi totali, gli scienziati statunitensi hanno richiesto un via libera di emergenza straordinario per operarlo. La parte più emozionante per i medici stessi è stato constatare come appena inserito questo scheletro artificiale, il bambino abbia iniziato a respirare da solo senza bisogno di aiuti. Un momento straordinario nel quale i ricercatori hanno compreso che l’operazione era andata a buon fine.
Fonte | NEJOM
Photo Credit | Università del Michigan