Si sente spesso dire che la volontà di guarire, l’ottimismo e la fiducia nelle medicine possono fare la differenza tra chi ottiene giovamento dalle terapie e chi invece passa da una all’altra senza benefici. Credenza popolare e poco scientifica? Anche se la variabilità individuale nella risposta ai farmaci dipende in buona misura da caratteristiche fisiologiche (costituzione, metabolismo eccetera), il fatto che anche la psiche faccia la sua parte è ormai ampiamente accettato e dimostrato dalla scienza stessa.
Il potere della nostra mente in questo ambito può essere così grande da farci trarre benefici persino da terapie che in realtà non hanno nulla di terapeutico, almeno in senso tradizionale. È l’effetto placebo: il fenomeno per cui una parte dell’efficacia di un trattamento dipende non dall’azione dei principi attivi, ma da fattori di natura emozionale o cognitiva, che poco hanno a che fare con le proprietà del farmaco. Al punto che i benefici restano tali se i principi attivi vengono sostituiti con sostanze del tutto prive di effetti farmacologici. Il placebo, va da sé, è un “finto” medicinale, che non contiene principi attivi di sorta.
Nella reazione del nostro organismo ad una terapia possono infatti confluire diversi fattori soggettivi: la speranza che riponiamo in quella specifica cura; il potere di convincimento circa la sua efficacia che il medico ha esercitato nel prescrivercela; la nostra precedente esperienza di pazienti guariti o, al contrari poco aiutati da altri trattamenti; la rassicurazione che un intevento terapeutico può produrre su di noi soltanto per il fatto di essere messo in atto.
Dato che l’effetto placebo dipende dall’idea che ci facciamo di una cura prima di praticarla, alcuni studi hanno cercato di determinare, a parità di farmaco somministrato, quali aspetti secondari del trattamento possano influenzare la nostra percezione. Dai risultati di questi studi pare che possiamo essere condizionati dalle modalità di somministrazione (per bocca o per iniezione), dalla frequenza di assunzione (una o più volte al giorno), dalle caratteristiche estetiche del prodotto (colore e dimensioni delle pillole, grafica della confezione), da fattori commerciali (marchio, prezzo).
In generale, a suscitare maggiori aspettative sono le somministrazioni multiple rispetto a quella unica, i medicinali iniettabili rispetto a quelli per bocca, le compresse più grandi rispetto a quelle piccole, le pillole rosse per gli effetti energizzanti e quelle blu per gli effetti calmanti.
La prima precisazione clinica del fenomeno è riportata agli inizi dell’Ottocento in un dizionario anglosassone dei termini medici, dove si definiva placebo «un qualsiasi medicamento usato più per piacere che per giovare al malato». Nei due secoli successivi, soprattutto nella seconda metà del Novecento, la nozione di effetto placebo si è fatta via via più articolata, grazie ai contributi della ricerca neurofisiologica, chiamata a identificare i meccanismi che lo determinano, e delle varie discipline cliniche impegnate a valutare il ruolo che il placebo riveste nel determinare il suo ordine esclusivamente mentale, di persuasione o autosuggestione, poiché i fattori psicologici che lo inducono innestano a loro volta una serie di reazioni biochimiche in diverse aree del cervello, che sono all’origine dei suoi effetti.
Parallelamente, avvalendosi di indagini strumentali che permettono di visualizzare l’attività del sistema nervoso centrale, come la risonanza magnetica funzionale e la tomografia a emissione di positroni (PET), i neurofisiologi hanno scoperto che nell’effetto placebo entrano in gioco non soltanto diverse parti del cervello quelle corticali coinvolte nell’ elaborazione cognitiva de esperienze a quelle più profonde che ne organizzano aspetti emozionali e sensoriali ma anche alcuni centri del midollo spinale, per esempio quelli che trasmettono gli stimoli dolorosi, e altri neurotrasmettitori oltre alle endorfine.
Da http://www.consumercare.bayer.it/ebbsc/export/sites/cc_it_internet/it/Sapere_and_Salute/articoli/Febbraio_2010/11_Scienza.pdf