Il Censis ha effettuato un indagine molto approfondita sui tempi e le modalità di “risoluzione” dei disturbi “sociali” legati alla disabilità relativa ad alcune patologie. Facciamo il punto sulle problematiche legate ai malati di Parkinson e quelli effetti dalla sindrome di Down. Quali le carenze più gravi? Come purtroppo ormai usuale, quella assistenziale e quella economica.
Senza contare le difficoltà a raggiungere una diagnosi. Specialmente per ciò che riguarda il morbo di Parkinson. In questo caso servono almeno 17 mesi affinchè la malattia sia diagnosticata. Ed a causa della scarsa assistenza pubblica in materia, almeno un paziente su tre non può contare né su un aiuto valido, né su terapie adeguate, spesso ostacolate nel vero senso della parola proprio dalla burocrazia.
I dati relativi alla sindrome di Down sono lo stesso tutt’altro che incoraggianti. Il 40% delle famiglie è chiamato a trovarsi da solo un servizio adeguato di assistenza. Ed in percentuale non dissimile è chiamato a pagarlo di tasca propria perché mancante a livello pubblico una organizzazione funzionale e preparata in tal senso.
Si tratta di problematiche che contribuiscono all’isolamento dei pazienti e delle loro famiglie, che vengono a pesare su quello che può essere un discorso riabilitativo dei malati. Ed il progetto pluriennale “Centralità della persona e della famiglia nei sistemi sanitari: realtà o obiettivo da raggiungere?” promosso dalla Fondazione Cesare Serono del quale il rapporto del Censis è parte integrante, lo evidenzia in maniera particolare.
Come spiega il presidente del Censis Giuseppe De Rita:
Tra gli aspetti più drammatici nella vita quotidiana di un malato di Parkinson c’è il dover assumere molte medicine, anche 7- 8 al giorno nei casi più gravi, ma anche il senso di isolamento che i pazienti avvertono. Due intervistati su tre affermano che la malattia ha modificato la propria vita .
Tra le problematiche più sentite, quella dell’accettazione, specialmente da parte dei bambini down, da parte della società. Una situazione che si protrae anche dopo i 25 anni di età, dove chi è abile al lavoro, nonostante la patologia, stenta a trovarlo o per lo stesso non viene retribuito.
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Fonte: Corriere della Sera