Troppo spesso ci troviamo a parlare di batteri resistenti agli antibiotici (ovvero di antibiotico-resistenza) e proprio nei giorni scorsi, anche l’Unione Europea e l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) hanno lanciato un nuovo monito e preannunciato campagne informative, tra i cittadini ed i medici, oltre che soprattutto nuove regolamentazioni soprattutto in riferimento all’utilizzo di questi farmaci negli animali che entrano nella catena alimentare (bestiame destinato a macellazione, galline ovaiole, mucche da latte, ecc). Per spiegarci meglio, stiamo parlando di batteri come quello della tubercolosi, che ha sviluppato un nuovo ceppo multi resistente ai comuni antibiotici in uso, dell’Escherichia Coli, nella sua forma definita “batterio killer“, e così via. Ma il problema come si può risolvere?
Prima di tutto con un uso corretto dei farmaci antimicrobici (antibiotici) che, va ricordato, non hanno alcun effetto sui virus (come quello del raffreddore o dell’influenza). E poi non deve mancare l’adeguata attenzione alla ricerca scientifica. A dirla tutta, il problema è anche questo: i batteri si modificano geneticamente, come è loro natura, si “adattano”, mentre i farmaci no, sono sempre gli stessi! Le penicilline sono in circolo nei nostri organismi dall’inizio del secolo (Alexander Fleming le scoprìnel 1928), tanto per fare un esempio. Ed in ospedale, magari in seguito ad interventi chirurgici, non è possibile evitare la somministrazione di antibiotici. Anzi: sono proprio i nosocomi, luoghi di cura, a registrare i più alti tassi di infezioni batteriche, soprattutto resistenti alle terapie. In Italia si parla di 400.000 casi l’anno di pazienti in queste condizioni, con un tasso di mortalità che oscilla tra il 5-ed il 10%. Spiega il Dott. Francesco Menichetti, direttore dell’Unità operativa di Malattie infettive dell’Aoup (Azienda Ospedaliera Universitaria di Pisa) che ha organizzato una giornata informativa dal titolo “SOS Antibiotici, come combattere le resistenze batteriche“.
“Paradossalmente stiamo tornando all’era pre-antibiotica perché i germi patogeni hanno progressivamente sviluppato resistenze ai farmaci a disposizione. E perché ne mancano di nuovi? Perché da vent’anni l’industria farmaceutica non investe più nella ricerca antimicrobica in quanto poco redditizia. Inoltre occorrono almeno 10 anni per giungere alla fase di registrazione, prima di immettere il nuovo antibiotico sul mercato. E un terzo aspetto è che il prodotto ha costi contenuti e viene usato per brevi periodi. Senza escludere ovviemente l’aspetto dell’uso errato e dell’abuso”.
Come risolvere allora visto che farmaci nuovi non esistono?
“Bisogna fare con quello che c’è, un pò come andare a rovistare nel baule della nonna, recuperare gli abiti vintage e riadattarli. Tradotto in linguaggio medico significa attuare una vera e propria rivoluzione nella ricerca clinica, basandosi sull’osservazione degli effetti sui pazienti dell’associazione combinata fra vecchi farmaci antibiotici, con la variante dell’aumento del dosaggio sotto stretto controllo. Si tratta di raccogliere una casistica di risultati analizzando tutti gli aspetti, clinici, microbiologici e farmacologici di un determinato “cocktail” farmaceutico, basandosi sull’evidenza scientifica di essi. E’ l’unica arma a disposizione della clinica in questa fase, oltre a un investimento maggiore di risorse nel controllo delle infezioni ospedaliere”.
Come sempre, noi evitiamo di rovistare invece nell’armadietto dei medicinali e di usare antibiotici per curare un raffreddore!
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[Fonte: AUOP; Foto Thinkstock]