Un nuovo farmaco a base delle cellule del paziente stesso: potrebbe essere questa la giusta strada per tenere sotto controllo la leucemia linfoblastica acuta, una delle forme di questo tumore del sangue più aggressive e difficili da curare.
Una sorta di “medicinale vivente”, così è stato ribattezzato dai ricercatore del Memorial Sloan-Kettering Cancer Center di New York che lo hanno creato. Il campione sul quale è stato provato in via sperimentale è molto piccolo, ma i risultati ottenuti fanno ben sperare per il futuro. Provato su cinque persone è riuscito a creare uno stato di remissione su tre di esse.
Si tratta di un approccio già provato in Pennsylvania su una bambina di sette anni con affette da leucemia acuta e su adulti con la forma cronica della malattia, ma mai fino ad ora su pazienti affetti da leucemia linfoblastica acuta. Non dobbiamo dimenticare che questa patologia ha una prognosi molto più infausta nei pazienti adulti, con un tasso di guarigione intorno al 40% rispetto all’80%-90% riscontrabile nella sua forma infantile. Ecco in cosa consiste questa terapia genica.
Si estraggono dal sangue un determinato numero di linfociti T, i globuli bianchi che di solito attaccano virus e batteri ma che in questa patologia si rivoltano contro le cellule sane. Essi vengono riprogrammati, attraverso una sorta di trapianto, con un gene in grado di produrre un recettore capace di riconoscere la proteina (CD19) contenuta nelle cellule tumorali tipiche di questa malattia. I linfociti così modificati vengono poi reinseriti nel paziente. Si tratta di un processo laborioso, ma soprattutto non ancora privo di rischi per il paziente: nel corso del trattamento, infatti, lo scontro tra le cellule malate e i linfociti T modificanti provoca il rilascio di citochine, ormoni che causano nei malati febbre molto alta, l’accelerazione del battito cardiaco e un calo della pressione sanguigna. Insomma, delle conseguenze che bisogna essere in grado di affrontare.
Serviranno quindi diverse verifiche e altre sperimentazioni, ma ci sono buone possibilità che l’approccio terapeutico ideato da Renier Brentjens e dai suoi colleghi e contenuto nello studio pubblicato sulla rivista di settore Science Translational Medicine possa non solo diventare un protocollo in uso negli ospedali ma che possa contestualmente indicare una nuova via terapeutica anche per altri tipi di tumore.
Fonte | Science Translational Medicine
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