Lo avreste mai pensato che la depressione potesse essere favorita dall’ossitocina, quella sostanza da sempre conosciuta come l’ormone dell’amore? La stessa che consente alle donne incinte di “dimenticare” i dolori del parto? Nemmeno noi, eppure è ciò che sarebbe emerso da una ricerca statunitense.
E’ un po’ come se l’ossitocina avesse due volti: uno buono ed uno cattivo. Se da una parte è conosciuto per essere in grado di favorire i legami sociali ed affettivi insieme al piacere ed uno stato di benessere generale, dall’altro sembra che a dispetto di quello che si pensava fino a qualche tempo fa non sia affatto in grado di controllare l’ansia ma di provocarla, favorendo la comparsa di depressione e paura. Cerchiamo però di comprendere come questo sia possibile. Questo suo “lato oscuro” in realtà sarebbe direttamente collegato al processo naturale di rafforzamento della memoria innescato dall’ossitocina in base a ciò che succede alla persona nel corso della sua vita.
Gli scienziati della Northwestern University, dopo aver analizzato i dati da loro raccolti nel campione di persone prese in considerazione di età e genere diverso, sostengono che se si è parte di un evento di tipo sociale stressante come l’essere vittime di bullismo o di un aggressione, la memoria viene particolarmente rafforzata, in una specifica regione, proprio dell’ossitocina portando la persona a subire, ogni volta che successivamente sarà posta in una situazione particolarmente stressante, ad un innesco di paure ed ansie che sul lungo periodo possono portarla ad entrare in uno stato di depressione. La ricerca, pubblicata sulla rivista di settore Nature Neuroscience, suggerisce quindi che rispetto alle credenze mediche del passato, l’ossitocina porti con sé conseguenze certamente positive in merito ad alcuni ambiti, ma al contempo abbia anche un influenza “negativa” sulla nostra memoria e sui nostri sentimenti. Due azioni speculari: se da una parte promuove un senso di pace e piacere, dall’altro può dar vita ad una sensazione di conflitto e stress.
Fonte | Nature Neuroscience
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