Il tribunale di Cagliari ha ufficialmente riconosciuto nei giorni scorsi il diritto di una coppia di genitori, lei malata di talassemia major e lui portatore sano della stessa malattia, di ottenere la possibilità di ottenere la diagnosi preimpianto dell’embrione nell’ambito di un intervento di fecondazione assistita. Una decisione che sta creando scompiglio in ambito medico e religioso chiamando in causa anche la parola ed il concetto di eugenetica.
Lo scorso giugno la Corte Europea di Strasburgo si era espressa in modo similare, sancendo il diritto della coppia che la interpellò ad ottenere una diagnosi preimpianto all’interno di un ricorso presentato contro legge 40 del 2004 sulla fecondazione assistita. La Corte di Strasburgo, dando ragione a una coppia italiana sana di fibrosi cistica, bocciava l’impossibilità per la stessa di accedere a questo particolare strumento diagnostico.
La diagnosi pre-impianto, anche in questo caso correlato alla talassemia, viene vissuta dalle associazioni Cattoliche come il primo passo verso la legittimazione di questo strumento medico e una controversa possibilità di “selezione” dell’embrione. Quello dell’impossibilità di verificare lo stato di salute degli embrioni prima dell’impianto a livello genetico è da sempre uno dei punti deboli della legge 40. La possibilità di “scartare” gli embrioni malati al momento della fecondazione assistita che scaturirebbe da questa ulteriore conoscenza, viene purtroppo considerata da molti come la possibilità dell’eliminazione sistematica di esseri umani allo stato embrionale. Per comprendere la situazione ecco il commento del Centro di Ateneo di Bioetica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano in una nota:
La sentenza del Tribunale di Cagliari che va nella linea di una legittimazione della diagnosi preimpianto, contro i divieti originari della legge 40, deve essere criticata da chi sia avvertito di che cosa realmente comporti: in assenza di possibilità di intervento terapeutico si riduce a essere uno strumento di selezione che porta all’eliminazione degli esseri umani allo stadio embrionale. Non si può giustificare la diagnosi preimpianto in nome dell’amore per i figli perché significa sostenere che sia meglio non nascere che vivere con una patologia: una logica che di fatto si salda con il diffondersi di una mentalità che giudica soltanto come un peso le persone con disabilità anche nelle altre fasi della vita.
Sebbene compressibile, questo punto di vista riapre un discorso già sentito: è giusto che sia il medico o la società a scegliere per la persona, per la madre? Quando un agglomerato di cellule può essere considerato vita? Anche l’aborto terapeutico deve essere inteso come un atto di eugenetica? Non è esagerato pensare che eseguire una selezione tra gli embrioni è comparabile ad un omicidio?
Photo Credit | Thinkstock