Il parto prematuro? Può essere causato dall’invecchiamento della placenta, che risente di alcuni fattori esterni dei quali fino ad ora non si era esplorato l’effetto sulle donne in gravidanza. L’Università del Texas ha studiato il fenomeno per comprenderlo meglio.
In pratica la placenta invecchia precocemente ed innaturalmente rendendo difficile la sopravvivenza del bambino all’interno del grembo della madre e portando il corpo stesso ad indurre il parto in anticipo. Lo studio a riguardo è stato condotto in laboratorio su delle membrane fetali sottoposte a stress ossidativo. Per farvi un esempio, in una delle tante sperimentazioni condotte nel corso di questa ricerca, la placenta è stata esposta a fumo di sigaretta: l’invecchiamento della placenta è stato definito dagli scienziati “drammatico” nella sua rapidità. Continuando con i loro test in vitro hanno constatato che tra i maggiori fattori di stress ossidativo vi erano alcol, alto indice di massa corporea, una alimentazione scorretta e le infezioni. Insomma, tutte cause che possono essere evitate con un po’ di attenzione al fine di non incorrere in un parto prematuro.
Il corpo umano, come il coordinatore della ricerca Ramkumar Menon ha ricordato, è in grado di controllare quasi sempre questo tipo di stress fisico, a patto che lo stesso non sia “travolgente”. In quel caso diventa difficile per l’organismo contrastare l’invecchiamento placentare. Il problema? Gli antiossidanti assunti durante la gravidanza come integratori sembrano non riuscire a contrastare l’effetto di questi fattori. Commenta lo scienziato:
Questo è il primo studio a osservare e dimostrare che lo stress ossidativo induce senescenza o invecchiamento nelle cellule fetali umane. Con più di 15 milioni di gravidanze in tutto il mondo che finiscono con nascite pretermine, ora possiamo andare avanti a scoprire come queste informazioni possono portare a strategie di intervento migliori per ridurre il rischio di parto prematuro.
Al momento, ritenendo che tali rotture premature delle acque dipendano da infezioni, la cura d’elezione è quella antibiotica. Secondo il team texano, al contrario, vi sarebbe la necessità di studiare meglio tale meccanismo e pensare ad un approccio alternativo. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista di settore American Journal of Pathology.
Fonte | AJP
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