Può essere valido approcciarsi alla sclerosi multipla come si fa con leucemia e quindi attraverso un trapianto di midollo osseo? Stando allo studio pubblicato su Neurology nei giorni scorsi sembrerebbe proprio di sì.
A condurlo una squadra di ricercatori della scuola di medicina dell’Università Aristotele di Tessalonica, in Grecia. La ricerca ha messo in evidenza come un protocollo da tempo impiegato per la cura di una malattia, possa rivelarsi efficace anche con una patologia di tipo differente.
Nello specifico si tratta di applicare un trapianto autologo di cellule sterminali ematopoietiche. La sperimentazione è stata messa in atto su 35 pazienti. Un numero molto esiguo, ma di un certo spessore se si pensa che la ricerca è stata condotta su un arco di tempo pari a 15 anni.
Dopo l’estrazione delle cellule ematopoietiche, adatte quindi ad essere trapiantate, il midollo osseo dei pazienti presi in esame dallo studio è stato distrutto con farmaci chemioterapici; dopo di che i pazienti sono stati sottoposti al trapianto delle cellule opportunamente purificate. I risultati hanno dimostrato che per un malato su quattro, a quindici anni dal trapianto non è stato rilevato un peggioramento della malattia, e questo nonostante il fatto che il rischio di progressione risultasse più alto del 44% nelle persone che al momento dell’intervento presentavano delle lesioni cerebrali attive. Su sedici pazienti, pari quasi al 50% del campione totale, è stato riscontrato un miglioramento dei sintomi quantificabili in due anni circa, e una riduzione del numero delle dimensioni delle lesioni cerebrali già presenti.
Analogamente a ciò che accade per i malati di leucemia, però bisogna ricordare che questa operazione non è priva di rischi: due pazienti su 35 sono deceduti a seguito di complicanze post trapianto.
Il dottor Vasilios Limiskidis, uno dei ricercatori autori dello studio, precisa che:
La nostra sensazione è che il trapianto di cellule staminali possa offrire benefici alle persone con sclerosi multipla rapidamente progressiva. Non si tratta di una terapia per tutte le persone con sclerosi multipla, ma potrebbe essere riservata alle forme aggressive che sono ancora nella fase infiammatoria della malattia.
Insomma, la tecnica non sostituisce i trattamenti a disposizione, ma si candida a poter essere impiegata in una ristretta fascia di pazienti. Non tutti la pensano questo modo però nell’ambiente medico statunitense. In particolare il capo dello staff medico della National Multiple Sclerosis Society americana Aaron Miller, tra le altre cose docente di neurologia alla Mount Sinai School of Medicine di New York, ritiene che si tratti di un terapia poco sicura e meno efficaci rispetto ad altre.
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Fonte: Quotidiano Sanità