Si chiama Helicobacter pylori ed è un particolare batterio che porterebbe allo sviluppo dei primi sintomi del morbo di Parkinson. Questo è quanto emerso in una ricerca presentata alla 111° assemblea della Società Americana di Microbiologia. La sperimentazione eseguita dai ricercatori ha suggerito che l’infezione derivata dall’Helicobacter pylori (batterio che si annida nello stomaco) potrebbe essere corresponsabile dell’insorgere del morbo.
La professoressa Traci Testerman, della Louisiana State University Health Sciences Center di Shreveport, ha condotto la ricerca su alcuni topi con età corrispondente ai 50-60 anni dell’uomo. Sei mesi dopo averli infettati con l’ Helicobacter pylori sono emersi i primi sintomi equivalenti a quelli del Parkinson: difficoltà di movimento e la riduzione di dopamina nel cervello.
“Il batterio produce una sostanza chimica che è dannosa per il cervello – hanno spiegato i ricercatori- l’H.Pilori che ‘ruba’ il colesterolo dal corpo modificandolo con l’aggiunta di uno zucchero”.
La molecola risultante da questa modifica è molto simile a quella trovata nei semi di una pianta che provoca il Parkinson nell’uomo nell’isola di Guam dove gli abitanti sono soliti consumare questo seme neurotossico. Una volta che la malattia si è sviluppata però sarebbe inutile rimuovere il batterio in quanto i neuroni danneggiati non posso essere recuperati. Questo batterio, molto diffuso nel mondo, è la principale causa di gastrite cronica ed è inoltre responsabile del linfoma gastrico MALT. Intanto i medici continuano ad usare le cure per ostacolare le sintomatologie del Parkinson come la neuromodulazione, un intervento chirurgico, in grado di facilitare il movimento dei pazienti e modularne le funzioni alterate. Altri rimedi vengono dagli studi clinici effettuati con le cellule staminali per curare la Paralisi Sopranucleare Progressiva una patologia che rientra tra i cosiddetti parkinsonismi. Il batterio Helicobacter pylori nella maggior parte dei casi risulta essere un infezione asintomatica. La diagnosi può essere effettuata con test non invasivi come il C13 Urea Breath test, un esame che viene effettuato facendo soffiare il paziente in una provetta dopo aver bevuto una soluzione contenente una piccola quantità di urea marcata con carbonio13, e l’esame delle feci. In caso positivo sarà successivamente necessario effettuare un esame esofagogastroduodenoscopia per valutare l’entità dei danni causati dall’infezione.
[Fonte: AGI]