Nuovi passi in avanti della ricerca in merito alla Sla, la sclerosi laterale amiotrofica. Un gene “basilare” nella sua insorgenza è stato scoperto da un gruppo di ricercatori internazionali tra i quali spiccano diversi team italiani.
La sclerosi laterale amiotrofica è una delle più gravi malattie neuro-degenerative che colpiscono l’uomo. Per giungere alla scoperta di questo particolare gene, chiamato Matrin3 è stato necessario un confronto “a tappeto” del genoma di persone sane e persone malate. Esso si trova, entrando nello specifico a livello scientifico, sul cromosoma 5 e funziona in un modo giudicato “insolito” dagli scienziati: ovvero codifica una proteina che trasporta le informazioni genetiche dell’Rna messaggero tra la cellula ed i suoi ribosomi. Se questo gene è difettoso, le informazioni non vengono scambiate in modo corretto accumulando tutta una serie di proteine “anomale” all’interno della cellula, proprio come accade in caso di Sla, dove è il neurone motorio a subire questo “intasamento” proteico. Comprendere come questo accada potrebbe portare alla creazione di terapie specifiche e funzionanti.
Questo studio non rappresenta purtroppo il punto di arrivo sebbene sia senza dubbio una pietra miliare nella ricerca relativa a questa malattia. I ricercatori hanno infatti lavorato sulla versione genetica della patologia e non su quella sporadica che è quella più frequente. Trovare tutti i meccanismi che portano allo sviluppo di questo gene ed alla malattia non sarà facilissimo, ma appare evidente che un piccolo grande passo sia stato fatto. Lo studio, condotto dagli scienziati del consorzio Italsgen, coordinati da Adriano Chiò dell’ospedale Le Molinette e dell’Università di Torino e di Mario Sabatelli dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, in collaborazione con Bryan Traynor dell’Nih di Bethesda verrà pubblicato sulla rivista di settore Nature Neuroscience. Rappresenta un nuovo modo di fare medicina e di approcciare le malattie. Forse un po’ più lungo ma si spera decisamente meno avaro in quanto a risultati sul lungo periodo.
Fonte | Nature Neuroscience
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