Prevedere se una persona è a rischio di disturbo da stress post-traumatico? Potrebbe essere possibile localizzando delle aree del cervello particolarmente sensibili agli effetti dello stress. E’ questo ciò che suggerisce una ricerca condotta recentemente in Israele.
Il disturbo da stress post-traumatico è una patologia spesso difficilmente capita che non può contare su una terapia specifica sul lungo termine. Anche se si tratta di un disturbo per il quale diverse fasce della popolazione possono trovarsi a rischio più di quanto si creda: parliamo di medici di pronto soccorso, poliziotti e vigili del fuoco. Tutte persone che si trovano ad avere a che fare con tragedie e scene orribili. I ricercatori israeliani hanno riposto il loro impegno nel tentare di mettere a punto una metodologia che consenta di analizzare la “suscettibilità” delle persone a questa patologia, in modo tale da svolgere diagnosi precoci e contestualmente una terapia migliore e mirata.
I professori Talma Hendler e Nathan Intrator dell’Università di Tel Aviv stanno lavorando su un progetto che combina un comune elettroencefalogramma ad una più complessa risonanza magnetica funzionale per trovare e “tracciare” il disturbo da stress post traumatico , scoprendone l’area del cervello di riferimento e quindi comprendere la vulnerabilità dello stress del potenziale paziente. Commenta la dott.ssa Hendler:
Ciò che rende unica la nostra ricerca è che siamo focalizzati sugli individui per tutto il tempo, non solo nel momento nel quale sono affetti dal disturbo. Questo perché vogliamo stabilire delle misure di vulnerabilità della malattia. Siamo stati in grado di predire il progredire dei sintomi apparsi un anno e mezzo dopo l’analisi condotta.
Gli scienziati hanno lavorato su un gruppo di volontari, medici dell’esercito israeliano. Il campione è stato analizzato sia prima dell’inizio del proprio lavoro nell’esercito, sia dopo la presenza in situazioni di stress all’interno di unità di combattimento. I risultati ottenuti hanno mostrato come vi fossero delle modificazioni nell’area della memoria e dell’apprendimento e nell’ippocampo. Regioni dell’encefalo cambiate in tutti i volontari. Questo, sostengono i ricercatori, potrebbe rappresentare un ottimo punto di partenza per avviare dei trattamenti specifici.
Photo Credit| Thinkstock