Sembra una notizia bufala, di quelle poste all’esterno della medicina e tipiche di una storia di fantascienza, eppure, proprio in queste ore si apprende che una possibile cura per l’epilessia potrebbe arrivare dallo spazio. E più precisamente da un meteorite caduto sul nostro pianeta nel 1969 e nel quale sono stati trovati alcuni aminoacidi non presenti sulla Terra. Perlomeno nella forma chimica nella quale sono stati riscontrati nell’oggetto spaziale.
In particolare, ad aver attirato l’attenzione dei ricercatori americani e canadesi ci ha pensato l’isovalina. Questa molecola è infatti stata trovata sulla terra due anni fa in una versione totalmente “speculare” a livello chimico in alcuni funghi che sembrano avere delle proprietà antibiotiche. Sebbene sia strutturalmente molto simile ad un antidolorifico, questa “medicina dello spazio” sul sistema nervoso agisce essenzialmente come un antiepilettico.
Gli scienziati del Center of Neuropharmacology & Neuroscience di New York e quelli della University of British Columbia di Vancouver e di Toronto, decisi a non lasciare nulla di intentato per ciò che riguarda la cura dell’epilessia, hanno deciso di scoprire se questo particolare effetto della molecola poteva venire sfruttato a favore del malato nella lotta a questa patologia. E come hanno spiegato sulla rivista di settore Epilepsia, (l’organo ufficiale della Società internazionale di Epilettologia, n.d.r.) dopo un accurato studio sul modello animale e sulle cellule nervose umane in lavoratorio, questa sostanza potrebbe rappresentare un punto di partenza molto valido per mettere a punto una terapia valida contro l’epilessia partendo da un “meccanismo di azione” completamente differente da quello basato sugli interneuroni attualmente in uso.
Rispetto al valproato o all carbamazepina, la molecola di isovalina spaziale ha dimostrato una efficacia ed una durata notevoli. Si tratta di un “vantaggio” importante, data la necessità dei malati di epilessia di essere sottoposti a delle particolari formulazioni di medicinale per consentire all’organismo di usufruire di una azione duratura nel farmaco, ma al momento ancora non si è verificato se sul lungo termine e su modello umano la molecola spaziale non porti a conseguenze importanti.
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Fonte: Corriere della Sera