C’è un contrasto diseducativo tra la raccomandazione dei medici di controllare l’alimentazione, nonché di ridurre le calorie voluttuarie, e la pressione dei mass media per moltiplicare le occasioni di consumo. Così, oltre alle feste comandate, compaiono nuove ricorrenze (dalla festa della donna a quella degli innamorati o dei papà) e con le feste aumentano anche gli auguri sotto forma di cioccolatini o di dolciumi. In tempi di povertà e non di consumismo i dolci hanno solennizzato l’eccezionalità degli eventi, aggiungendo qualcosa di simbolico ad un’alimentazione che per secoli è stata non solo frugale ma anche responsabile di malnutrizione in gran parte della popolazione.
Oggi, il ruolo dei dolci è cambiato. Alcuni dolci (merendine, gelati, cioccolato, ecc.) sono ormai entrati a far parte della quotidianità e vengono considerati, com’è giusto, dei normali alimenti; ciascuno con pregi e difetti condizionati dalla variabilità degli ingredienti e semmai dall’eccesso di zuccheri e grassi. Fa sorridere che in un’indagine Doxa del 1986 quasi la metà degli italiani ritenessero i dolci una componente voluttuaria dell’alimentazione, ovvero una piacevole e pericolosa eccezione ma non un vero e proprio nutrimento. E ciò in sintonia con la spiritosa osservazione, pare di Bernard Shaw, che “tutto ciò che è piacevole è immorale, proibito o fa ingrassare“.
Per fa Scienza dell’Alimentazione i dolci non rappresentano, invece, né un peccato di gola, né un premio per il buon comportamento di un ragazzo: sono soltanto degli alimenti graditi al palato, ricchi Di nutrienti ma quasi sempre ad alta densità calorica. Ciò significa che per gli obesi, per i diabetici o per i dislipidemici, dovrà essere il medico o il dietista a precisarne il tipo e la “dose”, ma non per le persone sane e fisicamente attive per le quali basterà attenersi ad un “purché”…
Purché i dolci (meglio quelli da forno che hanno un rapporto meno squilibrato tra farina, zuccheri semplici, grassi e proteine) rappresentino un’alternativa ad altri cibi e non un’aggiunta a conclusione di un pasto già ipercalorico, come accade purtroppo nelle grandi o piccole ricorrenze. Non è possibile sintetizzare in poche righe le complesse vie metaboliche e neurologiche che sembrerebbero giustificare l’attrazione psicologica ed il soddisfacimento sensoriale dovuto ai cibi dolci.
Sembra, comunque, che dopo un pasto ricco di carboidrati il rapporto fra triptofano plasmatico e aminoacìdi competitori sia tale da favorire l’attraversamento della barriera ematoencefalica da parte di elevati quantitativi di triptofano; ciò comporta l’aumentata sintesi di un neurotrasmettitore cerebrale (la serotonina) e quindi una possibile cascata di effetti gratificanti e sazianti. Tuttavia, anche se i neuropsicologi riusciranno a documentare sempre meglio la complessa rete di messaggi antidepressivi, innescata dall’alimentazione e in particolare dai dolci, resta il fatto che il contenuto di grassi e soprattutto di grassi saturi che caratterizza la maggioranza dei dolci è una controindicazione, più o meno perentoria, per tutti coloro che non possono o magari non vogliono riequilibrare la bilancia energetìca con un po’ più di attività motoria.