La pillola abortiva Ru486 può essere venduta. Anzi no. Nel luglio scorso l’Aifa, l’Agenzia Italiana del Farmaco aveva deliberato l’immissione in commercio del medicinale, dopo molti mesi di osservazioni e sperimentazioni, per controllare che non vi fossero effetti collaterali gravi e che la pillola fosse sicura ed efficace. La Ru486 passò l’esame, ma per poter entrare nel mercato, doveva attendere l’autorizzazione del presidente dell’Aifa, Sergio Pecorelli, il quale doveva approvare la delibera.
Con due mesi di ritardo, Pecorelli ha firmato, ma ancora negli ospedali non si trova la pillola. Come mai? Semplice, ci ha messo lo zampino il Governo. Bloccato dalle continue proteste della Chiesa che non vuole un metodo così semplice e sbrigativo per interrompere la gravidanza, il Ministro Sacconi ha indetto un’indagine conoscitiva per verificare se sia lecito vendere, e con quali metodi, tale farmaco. Le indagini conoscitive effettuate dal Parlamento sono un’arma strana, facilmente manovrabile dai politici, in quanto non ha limite di durata, e dunque, in teoria, potrebbe durare anche degli anni, fino a bloccare definitivamente l’ingresso sul mercato della pillola abortiva.
Secondo il regolamento, la firma definitiva alla delibera, che sancirebbe la vendita immediata del farmaco, dovrebbe arrivare il prossimo 19 ottobre dal direttore generale dell’Aifa Guido Rasi. Pecorelli però ha preferito bloccare tutto perché
Concludere non ci è sembrato opportuno nei confronti delle istituzioni.
E mentre in Francia la pillola esiste dal 1988, in Germania, Svizzera e Svezia dall’inizio degli anni ’90, e nonostante le regole che l’Aifa si è data per la vendita della pillola (solo negli ospedali e sotto stretto controllo medico) siano molto più stringenti rispetto a quelle degli altri Paesi, tutto rimane ancora bloccato e alle donne viene tolta questa possibilità di esercitare un diritto sacrosanto.
L’opposizione come al solito si lamenta, affermando che non si comprende il motivo per cui una tale decisione è stata presa, ma chi ci va di mezzo sono ancora una volta le donne italiane, le quali non solo si vedono negare un diritto presente in tutto il resto d’Europa, ma che ora, come negli scorsi anni, saranno costrette ad emigrare per poter interrompere una gravidanza, per un inutile cavillo burocratico.