Delle pinzette “genetiche” per afferrare i beta-amiloidi nel cervello ed evitare che si aggreghino portando alla degenerazione nei malati di Alzheimer. E’ questa la scoperta di cui si sono resi protagonisti i ricercatori dell’università Cattolica di Roma-Policlinico Gemelli e dell’università della California di Los Angeles: una molecola che potrebbe aprire la strada a nuove ed importanti terapie.
La ricerca condotta dalle squadre di scienziati di Claudio Grassi, direttore dell’Istituto di Fisiologia umana dell’università romana e di Gal Bitan, è stata pubblicata sulla rivista di settore Brain e racconta di come i ricercatori siano stati in grado di individuare CLR01, una molecola a forma di pinza che di fatto impedisce la formazione di proteine tossiche all’interno del cervello che si trovano alla base dello sviluppo dell’Alzheimer. Queste molecole, “pizzicando” i protidi, impediscono l’accumulo degli stessi, lasciando intoccati i neuroni, che possono quindi sopravvivere sani. Una sperimentazione condotta su modello animale, in topi geneticamente modificati per presentare dei disturbi neurologici simili alla malattia in questione, sembrano aver confermato tale efficacia di questa molecola. Commenta il prof. Grassi:
Questi studi aprono la strada a nuove prospettive terapeutiche per la malattia neurodegenerativa che rappresenta oggi la principale causa di demenza nell’uomo. La malattia di Alzheimer è una patologia di origine multifattoriale che si caratterizza per una progressiva perdita della memoria e un generale deterioramento delle capacità cognitive. Tra i molteplici fattori che concorrono a generare questo quadro clinico, un ruolo di primo piano spetta all’accumulo di piccoli aggregati del peptide beta-amiloide che hanno come bersaglio le sinapsi.
Agendo direttamente sui beta-amiloidi, potrebbe essere possibile evitare l’accrescimento del numero dei malati, che si stima arriverà ai 115 milioni nel 2050 rispetto agli attuali 36 milioni. Ovviamente prima di pensare ad un utilizzo sull’uomo di questa molecola individuata dal team italo americano vi sarà bisogno di ulteriori ricerche che possano confermarne non solo la validità ma anche la sicurezza. Ciò non toglie che tale scoperta possa rappresentare il punto di partenza per una cura efficace della malattia.
Fonte | Brain
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