Quasi una donna su due potrebbe essere stata oggetto di una sovradiagnosi di tumore al seno nei programmi di screening mammografici, cioè potrebbe essere stata sottoposta a cure tumorali per formazioni in realtà innocue. È la conclusione di uno studio realizzato dal Nordic Cochrane Centre di Copenaghen e pubblicato sul British Medical Journal. I ricercatori danesi sottolineano che i programmi di screening di massa sono efficaci nell’individuare forme precoci di tumori mortali ma che, al contempo, rilevano anche lesioni che altrimenti non diverrebbero mai clinicamente manifeste, cioè che non produrrebbero sintomi e non sarebbero letali.
Secondo la loro stima, si tratterebbe dei 52% dei tumori scoperti con screening mammografico. Le sovradiagnosi provocherebbero quindi cure inutili, con alti costi anche psicologici dovuti a dover affrontare una malattia come il cancro. Spiega Livia Giordano, presidente del Gisma, il gruppo italiano screening mammografico
«Con i programmi di screening, il sistema sanitario invita grandi gruppi di persone a sottoporsi a test specifici per individuare tumori in fase precoce, quando sono ancora molto piccoli e non danno sintomi. Questo consente interventi terapeutici tempestivi, in grado di evitare dei decessi. Il problema delle sovradiagnosi è che una volta trovate delle lesioni, non è possibile sapere se ci si trova di fronte a tumori con un’evoluzione così lenta da risultare innocui, o al contrario molto aggressivi e letali, quindi le cure si avviano in ogni caso»
Secondo Giordano la stima delle sovradiagnosi è un argomento controverso dal momento che altre ricerche hanno ottenuto cifre molto più basse rispetto a quelle dei ricercatori danesi.
«Partecipare ad un programma di screening è razionale, ma può esserlo altrettanto non farlo»
osserva Gianfranco Domenighetti, docente di comunicazione, economia e politica sanitaria all’Università della Svizzera italiana.
«Questo perché uno screening ha contemporaneamente sia effetti positivi sia effetti negativi».
Come per altri esami medici, i test applicati negli screening comportano margini di errore, come i cosiddetti falsi positivi e falsi negativi, cioè errori diagnostici per cui l’annuncio della malattia viene smentito da esami successivi o viceversa, la malattia non viene individuata subito ma c’è.
«Per questo bisognerebbe puntare su una comunicazione completa, che aiuti le persone a prendere una decisione consapevole. Tuttavia spesso non è così, le campagne di screening sono promosse con materiale che è più pubblicitario che informativo, dove si parla solo degli eventuali benefici, e non dei margini di errore o del rischio di sovradiagnosi, né questi vengono quantificati in maniera comprensibile e utile per prendere una decisione personale»
Secondo Domenighetti, dunque
«sarebbe opportuno che a occuparsi della comunicazione di questo tipo di campagne mediche non siano gli stessi soggetti che lo screening lo promuovono».