Gli scienziati lamentano da tempo la necessità di marcatori più specifici per il tumore alla prostata, tant’è che la ricerca in materia di cancro spesso orienta i suoi sforzi in tal senso: quello relativo alla prostata rappresenta infatti uno dei tumori più diagnosticati nell’uomo.
Negli ultimi tempi sono due i nuovi marcatori posti in utilizzo dai medici, il PHI ed il PCA3.
Era il lontano 1994 quando la Food and Drug Administration, l’agenzia statunitense per i farmaci e gli esami diagnostici autorizzo l’utilizzo del PSA, antigene prostatico specifico come marcatore per la diagnosi del cancro alla prostata.
Questa specifica sostanza, per quanto punto cardine del rilevamento della neoplasia è al contempo uno dei marcatori meno sensibili del corpo umano, e non di rado molti pazienti sono stati sottoposti a biopsie inutili perché l’indice risultava alto semplicemente a causa di una infezione o di un ingrossamento della prostata dovuto all’età. Non solo, talvolta i livelli di PSA non subiscono variazioni significative nemmeno con un tumore in atto.
E’ stato proprio questo il fattore che ha portato i ricercatori ad identificare nei due nuovi marcatori sopracitati due nuovi fattori discriminanti per la diagnosi. Il primo marcatore è denomionato convenzionalmente PHI (Prostate Health Index, traducibile in Indice di salute prostatica, n.d.r) e deriva molto semplicemente da un’elaborazione matematica dei dati relativi a tre analisi: PSA totale, PSA libero e [-2]proPSA. Quest’ultimo è una frazione particolare della molecola del PSA. La [-2]proPSA viene misurata nel sangue dopo un normale prelievo. Il valore del PHI può risultare indicativo in tutti quei pazienti che non hanno eseguito mai biopsie e che presentano valori di PSA particolarmente sospetti.
Il PCA3 è al contrario un indice di probabilità di presenza di cancro alla prostata e viene solitamente ritenuto necessario in caso di biopsia negativa in un quadro generale fisico non chiaro.
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Fonte: Corriere della Sera