Alla fine dell’800 l’Italia era considerata una potenza nel campo della ricerca medica. A tal punto che nel 1862, ai tempi della morte di Cavour, prestigiose riviste come “The Lancet”, New England Journal of Medicine e il British Medical Journal, ancora attive lodavano l’impegno medico del nostro paese. Da quel momento in poi, però, solo una parabola discendente.
Ecco quindi che già agli inizi del secolo si palesavano per i nostri ricercatori gravi problemi: pensare che quello dei cervelli in fuga sia un “incidente” di recente nascita è decisamente sbagliato. Il tutto, spiegano molti esperti di storia della medicina, non può essere ricondotto alla cacciata papalina di 15 dei più grandi luminari dell’epoca. Ma è lì che deve essere visto il punto di inizio. Al quale va unita purtroppo una tendenza tipica del nostro paese, quella di incarnare, anche nelle professioni, l’eterna lotta tra scienza ed ignoto.
Che in medicina, salvo qualche raro caso di fisiopatologi e ricercatori di grido che, come accennato venivano lodati anche da riviste estere di settore, preferiva rifarsi al conscio, ai salassi e non alla sperimentazione nuda e cruda; per fare un esempio quella che portò alla creazione dello stetoscopio da parte di Lannec nel 1816. Senza contare poi la passione, inspiegabile, per “Elementa medicinae” di John Brown, convinto assertore del fatto che i malanni dell’essere umano fossero strettamente legati alla sua eccitabilità.
Per molti anni fuori dal coro vi fu solo Carlo Matteucci . Ma fu con molta fatica e tante sofferenze che il medico riuscì a pubblicare i suoi libri di fisiologia e solo dopo molti incontri con la Santa inquisizione. L’oscurantismo nel quale la medicina moderna si inserì in quegli anni, salvo qualche eccezione ampiamente lodata, ha finito poi con il riversarsi nei nostri tempi, abbattendo completamente il contributo dell’Italia nelle grandi scoperte mediche.
Tolta la scoperta della doxorubicina, il primo farmaco anticancro, la nostra penisola è rimasta sempre fuori dal “giro”. Ed i suoi scienziati sono stati costretti ad emigrare all’estero per poter dare vita alle loro scoperte. I nostri quattro premi Nobel per la medicina Salvador Luria, Renato Dulbecco, Rita Levi Montalcini e Mario Capecchi ne sono la prova: tutti hanno lavorato all’estero. Solo due sono stati i riconoscimenti ricevuti da ricercatori in Patria. La causa? Come sempre la mancanza di fondi.
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Fonte: Corriere della Sera