Un nuovo marcatore per diagnosticare il cancro alla prostata. Ancora una volta un team di ricercatori internazionali sta mettendo a punto una nuova metodologia per riscontrare nell’organismo un segno precoce della presenza di questa patologia.
Questa volta a tentare l’impresa, un gruppo di scienziati dell’Università svedese di Uppsala. Cosa si tenta di raggiungere? Il superamento del marcatore PSA, l’antigene prostatico specifico, attualmente il test più conosciuto e diffuso ma decisamente il meno affidabile, come si è scoperto nel corso degli anni.
Gli sforzi dei ricercatori nordeuropei hanno portato alla messa a punto, ancora in fase sperimentale, di un nuovo test basato sulla rivelazione dei prostasomi nel sangue, particolari particelle extracellulari che in condizioni fisiologiche normale vengono rilasciate dalla prostata nello sperma.
La loro presenza nel liquido ematico, come hanno spiegato gli scienziati in un articolo pubblicato sulla nota e importante rivista di settore Pnas, in limiti ben stabiliti, renderebbe più semplice e sicuro rilevare la gravità del tumore alla prostata. Abbattendo quindi la creazione dei falsi positivi spesso “regalati” dal PSA, che non di rado ha portato all’intervento chirurgico od alla biopsia persone che non necessitavano di tali trattamenti perché affetti da semplici infezioni.
L’ipotesi presentata dagli studiosi sostiene che i prostasomi finiscano nel sangue invece che nello sperma solo in caso di tumore.
Il carcinoma alla prostata, va ricordato, è una delle forme tumorali più diffuse. Buona parte della sua incidenza è riscontrabile in Europa, ed in maggior numero negli Stati Uniti. Secondo l’American Cancer Society, la frequenza di questa particolare forma tumorale potrebbe dipendere anche da un fattore geografico ed etnico. Un concetto che verrebbe rafforzato dalla poca invasività di questa patologia nelle aree orientali del globo. Secondo i dati raccolti nel 2002 il tasso di incidenza annuale in Asia Centrale infatti è inferiore a 3 persone su 100.000 abitanti, mentre nel continente nord-americano si hanno più di 160 casi su 100.000 abitanti ogni anno.
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