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La solitudine è contagiosa”

Il picco della malattia si registra alla fine dell’anno. Nel vortice delle grandi feste, degli auguri, delle riunioni di fa­miglie e di amici, dei bacetti sot­to il vischio e della felicità con le palline di plastica argentata in confezione regalo. Il meccanismo di trasmissione è classico: sì incontra una persona che ne è affetta, si interagisce con lei da vicino, anche senza contatto fisico ravvicinato, specialmente con lei perché le donne sono le più colpite, e dopo qualche ora, giorno, a volte settimane, perché l’incuba­zione può essere lunga, possono manifestarsi i sintomi. Per­dita di appetito, insonnia, sbalzi di umore, cefalee, autoisola­mento, insomma una quarantena interiore.

La malattia di chiama solitudine. E anche se può sembrare un paradosso, nuove ricerche condotte da istituti universitari americani, pubblicate sulla stampa specializzata, sostengono di avere scoperto che la solitudine è contagiosa. Poiché essa è una condizione psi­cologica (quando non è la solitudine fisica e forzata di chi viene crudelmente abbandonato), la si può trasmettere agli altri, anche avendo un’apparente vita sociale. Sappiamo tutti benissimo che ci si può sentire soli anche nel mezzo di una folla, anche in una casa traboccante di amici e parenti, in un club o in una tragica festa dove gli al­tri sembrano divertirsi come pazzi. Tutti meno tu.

 

Non è il numero di persone che conosciamo o che fisicamente ci circondano, anche in un ufficio o in uno stabilimento, a de­terminare il senso di solitudine. Anzi, proprio per questo, chi ne soffre a volte subisce un acutizzarsi dei sintomi nei periodi delle feste comandante, quando tutti gli altri sem­brano riunirsi, divertirsi in compagnia. mentre io resto solo.

 «Nessun essere umano è un’iso­la», dice per esempio il profes­sor Nicholas Christakis, che in­segna “sociologia medica” (non chiedetemi che cosa sia) a Harvard. «Così anche un’emo­zione personale, privata come il senso di solitudine, può avere un’esistenza collettiva e influenzare altre persone». Senza arrivare alla patologia della depressione clinica, della quale la solitudine cronica è comunque cugina, e può es­serne la porta, anche il sentirsi soli ha naturalmente effetti fisici, in particolare sulle femmine della nostra specie che più dei maschi tendono a vedere il mondo come una ragna­tela di relazioni interpersonali e a contagiare più facilmente altre femmine con le quali entrano in contatto, se ne soffro­no.

C’è chi nega e contesta le conclusioni di questo lavoro pub­blicato dalla rivista americana di psicologia, perché non esiste ricerca al mondo che non abbia detrattori e scettici: ma l’idea che il proprio comportamento, i propri umori e le pro­prie emozioni possano contagiare altri essere umani, in ne­gativo o in positivo, è scritta da sempre nella cultura popo­lare, anche senza attendere i fondi pubblici per la ricerca e le sussiegose università.

 «Ridi e il mondo riderà con te», avverte un proverbio. «Piangi e piangerai da solo». Ora andrà modificato in «pian­gi e farai piangere anche gli altri», dunque non fare l’orso perché potresti deprimere tutto il branco. Anche se, per es­sere onesti, di orsi piangenti non se ne sono mai visti molti.