Si è dibattuto spesso e volentieri sulla donazione di reni, il loro trapianto e le conseguenze che i donatori viventi di questo organo sono costretti ad affrontare dopo l’operazione, quasi sempre intrapresa per dare una vita normale od assicurare la sopravvivenza ad un famigliare compatibile. Si è sempre pensato che rispetto alla popolazione sana fossero vittime di una maggiore incidenza di malattie cardiache: non è così.
Il rapporto “cuore-reni” è molto più stretto di ciò che si creda: una insufficienza cardiaca può portare a lungo andare ad una insufficienza renale e viceversa. La connessione tra la riduzione della funzionalità renale e le malattie cardiovascolari è una cosa comprovata. Nonostante ciò, molti precedenti studi erano stati in grado di rivelare, sebbene senza una definitiva conferma come quella ottenuta ora, che non sussistesse un maggiore rischio di malattia cardiaca per coloro che avevano donato un rene.
Lo studio che ha stabilito la non pericolosità della procedura è stato condotto in Canada da ricercatori canadesi, australiani ed americani, coinvolgendo 2028 volontari che in un lasso di tempo di diciassette anni, e più precisamente tra il 1992 ed il 2009, avevano donato un rene. I test e le analisi effettuati su di loro sono stati posi messi a confronto con quelli relativi a 20280 non donatori sani.
Condotta dagli scienziati della London Kidney Clinical Research Unit, specializzati nel settore, la ricerca ha rivelato che, nonostante la ridotta funzionalità renale nei donatori, c’era un minor rischio di morte o di subire una prima crisi cardiovascolare importante nei donatori rispetto ai non donatori. Numeri sensibili: parliamo di 2,8 contro 4,1 casi ogni mille persone all’anno.
Non solo: non sono state rilevate differenze significative nel rischio di ammalarsi di gravi malattie cardiovascolari tra i due gruppi presi in considerazione né è stato riscontrato un rischio di incidenza maggiorato delle stesse tra donatore e ricevente. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista di settore British Medical Journal.
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Fonte: British Medical Journal