La calvizie può essere un fattore di rischio per le malattie cardiache? Sembrerebbe proprio di sì, almeno stando ad uno studio pubblicato sul British Medical Journal e condotto dall’Università di Tokyo. Analizziamone però i risultati con le dovute cautele.
La calvizie maschile è stata considerata, negli anni, prima un simbolo di virilità perché associata alla presenza del testosterone, poi un problema estetico. La realtà attuale è che si tratta di un “disturbo” che colpisce sempre di più uomini di ogni età. Correlarla in questo modo all’aumento del rischio di malattie coronariche pone senza dubbio il problema sotto una luce diversa rispetto a quella di cui gode normalmente.
La ricerca, di tipo revisionale e basata su sei studi pregressi in materia, ha messo sotto l’osservazione dei ricercatori i dati relativi ad un campione composto da 40mila uomini di età inferiore o pari a 55 anni. Ciò che è emerso con particolare forza è che le persone calve sembrano avere maggiore probabilità di sviluppare generalmente delle patologie legate all’apparato cardiovascolare rispetto a coloro che non hanno perso i capelli, nemmeno parzialmente.
Ad essere sotto accusa è in particolare la calvizie a corona e non la semplice superiore: perdere i capelli nella parte alta della testa appare essere peggiore che perderli sulle tempie e sulla fronte. Gli studi che hanno fornito i dati sono stati pubblicati tutti tra il 1993 ed il 2008 ed hanno avuto una durata media di 11 anni. I risultati della revisione degli studi hanno reso possibile stabilire come gli uomini del tutto calvi o ampiamente calvi possiedono il 44% di probabilità in più di sviluppare una malattia cardiaca. E questo solo prendendo in considerazione le prime tre ricerche del campione. Secondo le rimanenti si arriverebbe addirittura ad un rischio pari al 70% nelle persone di mezza età con un picco dell’84% nelle persone più giovani.
Tutto questo sarebbe dovuto ad una insulino-resistenza maggiore riscontrata nel campione ed ad un “possibile” stato di infiammazione di tipo cronico.
Fonte | BMJ
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