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Tumore alla prostata: inefficace l’intervento?

 Il tumore alla prostata torna sotto la lente d’ingrandimento degli esperti.  E tutto a causa di diversi studi condotti negli ultimi mesi dai risultati concordi: l’operazione di rimozione della prostata in caso di cancro non sarebbe risolutiva per la guarigione finale.  Un punto di arrivo che rischia di portare alla totale revisione della diagnosi e della terapia di questa particolare patologia.

A rappresentare la “pietra dello scandalo” in questo caso è stata la ricerca inglese “Prostate Intervention Versus Observation Trial” nella quale è stata presa in considerazione e messa sotto esame la prostatectomia, in altre parole la rimozione chirurgica della ghiandola maschile. La “contestazione” riguarda l’intervento e la sua invasività, soprattutto in virtù della mancata assicurazione di effettivi benefici in seguito all’eliminazione dal corpo della prostata.

I ricercatori coordinati dal prof. Timothy Wilt hanno presentato il loro studio nel corso dell’ultimo congresso di urologia tenutosi a Parigi, esternando, davanti ad una folla attonita di colleghi, la loro convinzione. Basata, va sottolineato, su un campione di 731 uomini affetti da tumore alla prostata e seguiti per un arco temporale pari a 12 anni. I risultati hanno evidenziato che coloro che si erano sottoposti alla rimozione dell’organo non solo avevano guadagnato meno del 3% in ambito di “ulteriore” sopravvivenza, ma avevano archiviato anche sul breve periodo solamente dei blandi benefici.

Sulla stessa linea anche diversi studi di origine teutonica e statunitense. In questo caso però a finire al centro dell’attenzione ci pensano i metodi diagnostici utilizzati. Un esempio? Lo screening periodico per l’identificazione. Una ricerca anticipata dei segni del tumore, secondo un gruppo di ricercatori del Karolinska Instituet svedese, non sarebbe utile a migliorare la prognosi della malattia. E cosa dire del Psa, l’antigene prostatico specifico? La sua validità è ancora sotto esame. Questo non toglie che secondo uno studio pubblicato dal British Medical Journal condotto dagli scienziati del Memorial Sloan Kettering Medical Center di New York, sostiene che l’unico momento nel quale l’analisi dello stesso abbia una vera validità sia intorno ai 60 anni.

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Fonte: British Medical Journal