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Terrorismo: follia, razionalità e meccanismi mentali

 Ho guardato e riguardato le scene dell’attentato di Boston. Terrorismo, certo, ma le esplosioni non eccessive, seppur criminali ed assassine, mi hanno fatto pensare al gesto di un folle, un lupo solitario, come si dice in gergo e mi ha ricordato le esplosioni fuori dalla scuola di Brindisi. Per questo ho scelto oggi di riflettere con voi su questo argomento.

Cos’è la follia?

Usiamo il termine “folle” riferendoci ad una condizione, la follia, in cui si sviluppa un mancato adattamento all’ambiente (anche e soprattutto sociale) e si agisce con comportamenti giudicati “estremi ed innaturali”. E’ un termine che viene usato quindi in modo informale per indicare una instabilità psicologica e/o comportamentale rispetto alla norma: in psichiatria e psicopatologia difficilmente si parla di “un folle”, ma di una persona con disturbi mentali, che è ben altra cosa. La follia è anche considerata come il momento in cui l’istinto e l’irrazionale superano la razionalità. Ma è veramente così? E quante sfumature psicologiche ci possono essere al riguardo? Ed un terrorista può essere veramente considerato folle?

La motivazione nella psiche del terrorista

Chi arriva ad uccidere programmando meticolosamente ogni dettaglio ha una forte componente razionale a guidare le azioni: l’assassino, il killer, la mano armata, è convinto di fare una cosa necessaria. Come giustificare altrimenti a se stesso la morte di un bambino di 8 anni ad una gara sportiva? O una strage in una scuola come avvenuto poco tempo fa? Al riguardo dei fatti di Boston ho letto un articolo su Live science, in cui John Horgan, direttore del Centro Internazionale per lo Studio del terrorismo presso la Pennsylvania State University ha spiegato alcuni aspetti interessanti: in queste persone non esiste un “profilo psicologico “ predeterminato, ogni gesto ha un significato personale, in cui in realtà si cerca di far confluire qualcosa di importante, che li faccia sentire meglio rispetto ad una umiliazione o a quella che ritiene un’ingiustizia. La morte, la distruzione, la violenza, rappresentano un mezzo “forte “ per raggiungere l’obiettivo.

Le vittime nella mente del terrorista

Le vittime? Sono parte integrante del tutto, psicologicamente dis-umanizzate, un eventuale effetto collaterale necessario.  Solo così si può riuscire a raggiungere lo scopo. Del resto, come spiegano gli esperti, il salvaguardare la vita altrui è parte di un istinto naturale umano ed il terrorista uccide a distanza, con una bomba, non con un pugnale o una tortura, proprio per non essere vicino alla sua vittima. Le scene di soccorso immediato, sul traguardo della maratona di Boston, avranno mai toccato il cuore o la mente di chi ha colpito così alla cieca per dare un segnale non ancora identificato? Qualcosa sarà scattato nella psiche del terrorista alla notizia della morte del bambino? Qualche terrorista nel tempo è riuscito a raggiungere la fase psico-emotiva del rimorso. E questo ci può consolare sul genere umano, come pure la valanga di aiuti che anche in questo caso sono arrivati da ogni dove (donazione sangue, ospitalità, ecc.), anche se dal punto di vista giuridico e legale, la colpa rimane e va perseguita.

Foto: GettyImages