Stando ad un recente studio, il diabete raddoppia il rischio di morire di infarto, ictus o altri problemi cardiaci.
I ricercatori hanno scoperto che in un caso su dieci il paziente che muore di malattie cardiovascolari è anche diabetico. Per un totale di 325 000 decessi all’anno nei Paesi industrializzati. Nadeem Sarwar, docente di epidemiologia cardiovascolare presso l’Università di Cambridge in Inghilterra, autore della ricerca, spiega come
sia noto ormai da decenni che le persone con diabete hanno maggiori probabilità di avere attacchi di cuore. Ma, nonostante decenni di ricerche, molte domande sono ancora senza risposta sulle cause di questa correlazione.
L’équipe di Sarwar ha analizzato i dati di 698.782 persone, monitorate per dieci anni in 102 diversi studi effettuati in 25 Paesi.
E ha scoperto che il diabete arriva quasi a raddoppiare il rischio di soffrire di varie malattie che coinvolgono il cuore ed i vasi sanguigni. Tra i fattori di rischio per ictus ed infarto ci sono da sempre l’obesità ed il colesterolo. Questa nuova ricerca mette in luce l’impatto del diabete sulle patologie che affliggono il cuore. E’ bene ricordare che le malattie cardiovascolari sono la principale causa di morte nel mondo, provocano infatti circa 17 milioni di decessi ogni anno.
E’ importante intervenire sulla prevenzione e monitorare il paziente diabetico per assicurarsi che non ci siano conseguenze e rischi maggiori, se non addirittura fatali, per la salute. Questi risultati, infatti, evidenziano proprio la necessità di prevenire e controllare il diabete. Per Sarwaar questa ricerca è particolarmente importante in termini di sviluppo di farmaci più efficaci e nuovi bersagli terapeutici.
Per il Dr. Gregg C. Fonarow, della University of California:
Questo studio conferma che il diabete è un grave problema che raddoppia il rischio di attacchi cardiaci, ictus e morte. La cattiva notizia è che siamo nel bel mezzo di un’epidemia e bisogna fare maggiori sforzi per prevenire e combattere più efficacemente la diffusione di questa malattia.
Lo studio completo è stato pubblicato su The Lancet.