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Resuscitare un morto è possibile?

Resuscitare un morto è possibile? Non si tratta di una provocazione né di qualsiasi reminiscenza horror alla Frankenstein, ma una domanda che si  pone  da tempo il dott. Sam Parnia, della Stony Brook University School of Medicine. Ed alla quale da diversi anni sta tentando di dare una risposta.

Il suo ultimo libro, da poco uscito negli Stati Uniti, “Erasing Death: The Science That is Rewriting the Boundaries Between Life and Death” (Cancellare la morte: la scienza che sta riscrivendo i confini tra la vita e la morte, N.d.R), la dice lunga già a partire dal suo titolo. Per molti anni il ricercatore in questione ha lavorato su questo particolare aspetto della medicina, dando vita ad un protocollo (Aware, N.d.R.) ormai usato in diverse parti del globo da attuare nei confronti di tutte quelle persone che vivono, a causa di una patologia e per breve tempo, uno stato di “morte” prima di essere rianimati.

Secondo l’autore del libro tutto risiederebbe nei progressi scientifici archiviati ed archiviabili in futuro che potrebbero consentire di manipolare quei processi che riguardano il corpo umano e lo trasformano in cadavere. Il cervello è la chiave di tutto e se si riuscisse in qualche modo a riportare indietro le lancette dell’organismo, si potrebbe, in linea teorica, resuscitare un morto. Ecco come ha spiegato il suo punto di vista nel corso di un’intervista alla trasmissione americana Today Show:

I progressi negli ultimi 10 anni ci hanno dimostrato che dopo che una persona muore, si trasforma in un cadavere soltanto quando le sue cellule cerebrali cominciano a morire. Anche se la maggior parte delle persone pensa che questo avviene in soli quattro o cinque minuti, ora sappiamo che in realtà le cellule cerebrali sono vitali per un massimo di otto ore… Adesso sappiamo che è solo dopo che una persona si è trasformata in un cadavere che le sue cellule stanno davvero morendo, e se quindi manipoliamo quei processi, siamo in grado di riavviare il cuore e riportare una persona in vita.

Dove risiede quindi il problema? Secondo lo scienziato, convinto che la coscienza rimanga “sveglia” ben oltre l’ultimo battito del cuore,  il fulcro di tutto sarebbe riscontrabile nelle “convinzioni contrastanti” sulla dichiarazione di morte di un paziente e sulla scarsa applicazione di ricerca e conoscenza in questo particolare ambito. Comprendiamo che si tratti di un argomento un po’ scomodo e decisamente raccapricciante, ma cosa ne pensate?

Sam Parnia

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