Quando ci si sottopone ad un test come quello per l’HCV o l’HIV, sia che lo si faccia volontariamente che, come accade talvolta per gli operatori sanitari, in caso di puntura accidentale con le siringhe usate di un paziente, il trauma nella maggior parte dei casi è fomentato dall’attesa del responso, non solo del primo test, ma anche di quelli successivi, da ripetere nei mesi seguenti. Quando si può essere certi, prendiamo il caso dell’Aids, che il test sia effettivamente negativo?
La risposta sta tutta nella tipologia di test che si utilizza. Ad esempio, se il test effettuato è uno dei sierologici di quarta generazione, si può stare abbastanza tranquilli che l’infezione se non si è presentata fino a quel momento non è avvenuta. Il margine di sicurezza è abbastanza ampio. Questo perché questa particolare tipologia di analisi consente sia di identificare gli anticorpi prodotti dall’organismo, sia l’antigene p24, un sottoprodotto della replicazione del virus dell’Aids che in caso di contagio inizia a comparire nel sangue tra la seconda e la quarta settimana dall’esposizione. Essi, va però ricordato, spariscono per poi ricomparire dopo mesi o anni. A differenza degli anticorpi, che rimangono presenti in ogni momento dalla comparsa dell’infezione.
Perché si prende come punto di riferimento per la “sicurezza” un periodo di tre mesi? Perché gli intervalli di tempo riguardanti questi due “markers” sono legati anche da fattori di tipo individuale, come il tempo di esposizione al virus e la modalità di esposizione allo stesso.
Ad aiutare esperti e pazienti nella lotta contro questo virus e nella sua “ricerca”, è stato in maniera netta anche il progresso scientifico relativo alla evoluzione dei test. Basti pensare che i primi esami concepiti per la diagnosi della malattia richiedevano una ripetizione anche al sesto ed al 12 mese. L’equazione in questo caso è molto semplice: maggiore progresso dei test=maggiore sicurezza dei risultati= minore bisogno di ripetere l’analisi.
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Fonte: Corriere della Sera