Una strategia che riesca a proteggere le ovaie delle donne sottoposte a chemioterapia. È l’intento di uno studio condotto da Stefania Gonfloni e dai colleghi biologi e medici dell’Università degli Studi Tor Vergata di Roma. Chemioterapia e radioterapia, le armi più comunemente usate per sconfiggere il cancro, prevedono l’impiego di agenti chimici e fisici in grado di indurre lesioni nel DNA. Queste lesioni provocano l’attivazione di TAp63, un particolare gene “sentinella” che ha la funzione di impedire che errori nel codice genetico possano trasmettersi alla generazione successiva.
A questo scopo, TAp63 induce le cellule lesionate al suicidio. Oltre alle cellule cancerogene trasformate, però, i trattamenti aggressivi della chemioterapia possono colpire anche cellule sane, provocando conseguenze indesiderate. Come nel caso delle cellule uovo, contenute nelle ovaie. La loro riduzione di numero a causa della terapia è uno degli effetti collaterali con maggiore impatto sulla qualità della vita delle donne che hanno sconfitto il cancro.
Il gruppo di Stefania Gonfloni ha individuato il meccanismo di attivazione di questo sistema di sicurezza. Il protagonista è c-Abl, un altro gene, in grado di trasformare TAp63 da semplice sentinella a vero e proprio “kamikaze cellulare“. Possiamo immaginare che funzioni come un semaforo: quando è verde, TAp63 non si attiva e non ci sono problemi per la cellula, mentre se è rosso, TAp63 ne provoca la morte. Ai ricercatori romani è venuto in mente di provare a utilizzare un inibitone specifico di c-Abl, l’irnatinib, un farmaco già utilizzato in alcuni casi di leucemia, e vedere cosa sarebbe successo. È come se il semaforo diventasse giallo, aprendo di fronte alla cellula due possibili strade.
La cellula può ancora andare incontro alla morte, ma lo fa in un numero di casi inferiore. L’altra possibilità è che la cellula non muoia, ma continui a vivere, intraprendendo una percorso di correzione degli errori genetici. È quello che è avvenuto in laboratorio e lascia intravedere un futuro dove la chemioterapia potrebbe essere altrettanto efficace, lasciando intatta la possibilità di avere figli. Qui si fermano i risultati finora raggiunti e il lavoro da fare è ancora risolto. Spiega Stefania Gonfloni
«Innanzitutto c’è da capire se l’attività dell’inibitore che abbiamo utilizzato non interferisca in qualche modo con la terapia».
Capire, cioè, se l’utilizzo dell’imatinib non protegga le cellule uovo e le ovaie a discapito dell’efficacia della chemioterapia.
«Somministrare in modo mirato e locale il farmaco potrebbe essere una possibilità»
Ma si può anche lavorare sul dosaggio, verificando se è possibile trovare un equilibrio tra efficacia terapeutica e salvaguardia delle ovaie. Tutte ipotesi, sulle quali sarà necessario realizzare altri esperimenti clinici per scoprire la terapia del futuro.