Operare un malato terminale è un reato, in quanto viola la deontologia professionale medica, anche se c’è il consenso stesso del paziente. A sancire questi principi la Corte suprema di Cassazione, IV Sezione Penale con la sentenza 13746/11 in cui si conferma la condanna di tre medici ritenuti colpevoli della morte di una donna avvenuta l’11 dicembre 2001 a Roma, presso l’Ospedale San Giovanni. Principale imputato in questione il discusso Cristiano Huscher, chirurgo di fama internazionale e pioniere della chirurgia mininvasiva laparoscopica. Malasanità?
E’ difficile rispondere e dare un giudizio su questo caso che sta suscitando numerose reazioni contrapposte. Provo comunque a raccontarvelo partendo da due presupposti: 1) la vittima era una donna, della mia età e come me aveva due bambini. 2) Huscher, ho avuto modo di conoscerlo ed intervistarlo nel periodo più brillante della sua carriera: un eccellente chirurgo, dedito anche ai casi disperati, perché la sua metodica essendo poco invasiva permetteva di farlo. Ed il punto è proprio qui.
Per questo è stato tanto sostenuto quanto denunciato dai familiari dei suoi pazienti: il caso della signora Gina (questo il nome della donna) è emblematico. Aveva un tumore al pancreas, diffuso e con metastasi. Non le restavano più di 6 mesi di vita e lei, cosciente, avrebbe fatto qualunque cosa pur di aggiungere poche settimane al suo doloroso percorso (si legge nella sentenza, ma come non condividere?). Quando il medico e la sua equipe gli hanno prospettato la possibilità di un intervento chirurgico in questo senso (non salvavita), nonostante i rischi connessi all’operazione ha accettato. E’ morta poche ore dopo l’uscita dalla sala operatoria per una emorragia, secondo la sentenza di condanna avvenuta a causa di un’errata manovra chirurgica e la successiva incapacità di trattarla in modo adeguato. Il documento della Cassazione di fatto conclude per l’annullamento, causa decorrenza dei termini, del ricorso presentato dai medici condannati dal precedente provvedimento giuridico, elaborato dalla Corte d’Appello il 28 maggio 2009, non rilevando elementi appropriati a difesa dei ricorrenti, per procedere con un nuovo dibattimento. L’omicidio colposo dunque è confermato non solo per gli errori medici durante e post operatori, ma anche per violazione della deontologia professionale ed accanimento terapeutico. Si legge nella sentenza:
“il prioritario profilo di colpa in cui versavano gli imputati è stato evidenziato dalla stessa Corte nella violazione delle regole di prudenza, applicabile nella fattispecie, nonché delle disposizioni dettate dalla scienza e dalla coscienza dell’operatore. Nel caso concreto attese le condizioni difficili indiscusse ed indiscutibili della paziente (….inoperabile), non era possibile attendersi dall’intervento un beneficio per la salute e/o un miglioramento della qualità della vita. I chirurghi pertanto avevano agito in dispregio al Codice deontologico che fa divieto di trattamenti informati a forme di inutile accanimento diagnostico-terapeutico”.
Non si entra nel merito dell’errore medico e della sentenza che va rispettata. Ma diventa sempre più complesso comprendere il significato del concetto dell’accanimento terapeutico e dei suoi limiti deontologici.
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[Fonte: Diritto24]