Potremmo dire che le protesi al silicone fanno ormai parte della nostra quotidianità. Sono talmente diffuse che le diamo per scontate, ma quanti di noi ne conoscono la storia? Ecco di seguito un brevissimo excursus storico che, forse, ci rivelerà qualche dettaglio inaspettato sulle migliori amiche delle donne poco…formose. La patria delle protesi al silicone può essere considerata la città americana di Houston. Qui infatti i chirurghi plastici Thomas Cornin e Frank Gerow nel 1960 crearono, in collaborazione con la Dow Corning Corporation, la prima protesi mammaria in silicone, che venne impiantata nel 1962 a Timmie Jean Lindsey presso lo Houston’s Hermann Hospital (adesso Memorial Hermann Hospital).
Da allora sono state numerosissime le pazienti ansiose di farsi impiantare una protesi per aumentare di volume il proprio seno. Ma quella creata da Gerow e Cornin non è stata la prima protesi mammaria della storia: già nel 1895 un chirurgo tedesco aveva tentato l’impresa impiantando nel seno di un’attrice il grasso prelevato da un lipoma (un tumore benigno) della donna stessa e a questo primo, pionieristico, tentativo sono seguiti gli impianti di protesi alla paraffina, quasi subito abbandonati per via delle conseguenze, spesso pesantemente negative, sullo stato di salute delle pazienti. Inoltre si mormora che, negli anni precedenti alla rivoluzionaria trovata dei due chirurghi statunitensi, alcune prostitute avevano iniettato direttamente nel seno il silicone con risultati prevedibili.
Fu nel corso dei primi anni novanta che negli Stati Uniti scoppiò la bufera mediatica e legale che travolse le protesi al silicone e la Dow Corning Corporation che le aveva immesse sul mercato: durante la trasmissione televisa Face to Face with Connie Chung le protesi al silicone furono definite “velenose” e messe sotto accusa al punto che la FDA (Food and Drugs Admnistration) nel 1992 ne vietò l’uso a scopi cosmetici limitandone l’applicazione a scopi ricostruttivi a pochi gruppi di donne che avevano subito una mastectomia.
Al polverone mediatico seguirono infatti una valanga di denunce e il primo caso giudiziario si concluse nel 1991 con una richiesta di risarcimento danni pari a 7 milioni e 300mila dollari da parte di Marian Hopkins. La donna soffriva infatti di una malattia autoimmunitaria la cui insorgenza fu attribuita all’impianto delle protesi. Sembra infatti che le protesi di prima generazione avessero il limite di far passare alcune molecole di silicone nei tessuti causando importanti reazioni flogistiche che potevano indurre malattie autoimmunitarie, ma non è mai stato dimostrato che abbiano avuto un ruolo nello sviluppo di malattie come il cancro.
Attualmente negli Stati Uniti si usano protesi contenenti soluzione salina che hanno un effetto meno naturale alla vista e al tatto. Nel resto dei paesi industrializzati, dove il silicone non è mai stato bandito, sono attualmente in uso protesi di nuova generazione, più spesse, a doppia o tripla camera, quindi molto sicure, e con un involucro esterno in elastomero siliconico un materiale particolarmente resistente e flessibile. Negli Stati Uniti sembra sia attualmente in corso una sorta di riabilitazione delle protesi al silicone dettata dall’evidenza che non è stata riscontrata alcuna pericolosità per la salute nelle nuove protesi.